nello spazio vuoto di sè
L'ossessione per quello che resta è iniziata sul tappetino da yoga.
Al termine di una pratica la mia Maestra, stimolando la nostra introspezione nella posizione di Savasana, ci ha invitato ad osservare in quello spazio vuoto di sé cosa restava nel nostro corpo di quello che avevamo appena vissuto. È da allora che questa domanda ha cominciato a sedimentarsi e radicarsi in me.
Cosa resta? Non solo nel corpo, ma nella mente, nei gesti quotidiani, nei ricordi. Cosa resta dopo una giornata, dopo un'esperienza, dopo un incontro, dopo una perdita. Inizia così dentro di me questa raccolta di frammenti. Con quella domanda che nei momenti più disparati ha continuato a ripresentarsi alla mia coscienza e a riverberarmi dentro.
Il lutto ha poi reso tutto più nitido. Non nella sua violenza, ma nella sua capacità di svuotare. E in quello spazio vuoto, ho cominciato a vedere un filo che mi riportava lì. Il lutto ha poi reso tutto più nitido. Non la risposta, ma la domanda. E in quella domanda, è nato questo diario. Non è una cronaca, non è una confessione. È un luogo dove posso osservare senza spiegare, dove posso scrivere senza dover raccontare tutto.
Ma soprattutto dove posso condividere e dove la permanenza ha valore, anche se è fatta di cose piccole, leggere, impalpabili.
Rimanere nel vuoto di sé
È una preghiera che non chiede, ma ti offre all'ascolto
Ci si raccoglie a seme in attesa della pioggia
e del vento in cui risuona l'eco della vita vissuta
Una manciata di parole
Che si incollano alla carne
Per aprirsi all'occorrenza
Del respiro affannato
